lunedì 8 novembre 2010

ZINGARO FELICE

Tante persone sono nate o dentro un ospedale o dentro una casa, io ho avuto il culo di nascere dentro un treno in pieno inverno, nel tragitto tra Belgrado e Sremska Mitrovica, nell’ex Jugoslavia che è lunga sessantotto chilometri, ma a quei tempi ci serviva minimo mezza giornata con il treno a carbone.
E non sto scherzando, non c’è niente da scherzare, nascere dentro un treno, un totale caos, maschi che scappavano dal compartimento, il controllore dei biglietti è svenuto quando ha visto quanto ero brutto (meno male cosi al meno non pagavo il biglietto).
Ma il vero problema è quante cazzate devi sentire appena nasci, così tante che già da piccolo ho cominciato a odiare i passeggeri. Ognuno aveva qualche consiglio da dare a mia madre, senza rendersi conto che la poveretta era svenuta e non poteva sentirli. Una signora magra e delicata come un elefante in un negozio di porcellana, non chiudeva la sua bocca, tanto larga che ci potevi parcheggiare un tir.
Diceva che ero tale quale mio padre, ma come poteva conoscere mio padre, che, appena si era reso conto che mia madre era partita per Belgrado per partorirmi, si era così ubriacato, non so se per la gioia o la disperazione, che aveva sbagliato il treno e perso un cavallo (meno male che lo aveva trovato per strada). elefante urlava, strillava, ‘e’ bello, o quanto e’ bello, finché non è arrivato il capotreno e in modo molto gentile l’ha mandata a quel paese.

Dopo un’ora di viaggio, ci hanno portato in ospedale, era meglio se non venivo: al pronto soccorso sono cascato dalle mani di una vecchia infermiera e mi sono rotto il braccio, poi quando l’ostetrica mi visitava, girandomi per i piedi sotto sopra, per due volte ho sbattuto la testa sul lettino. Nella mia prima giornata ho capito che la mia vita sarebbe stata molto difficile e che avrei dovuto sbattere la testa a destra e a sinistra per sopravvivere e così è stato fino ad oggi. 

Nella mia vita esistevano solo due Luise, mia moglie e la mia cavalla. Non so per quale delle due ho pianto di più. Da noi un uomo senza una donna non è un vero uomo, perciò per potermi sposare dovevo in qualche modo guadagnare i soldi, perché, si sa, uno brutto come me, senza soldi, dove la trova una bella donna … Ho imparato a giocare a carte e nel giro di due anni sono riuscito a diventare più povero di prima, se prima non avevo niente, adesso ancora di meno. Mi dovevo trovare un lavoro urgentemente (con urgenza), ma avevo sempre un grande problema, ogni volta, quando mi veniva voglia di lavorare, io mi sedevo finchè non mi passava.
Dopo questa esperienza di giocatore, ho dovuto per forza cambiare mestiere. Noi rom siamo persone con tanti mestieri, l’unica cosa che ci frega e qualifica è che tutto quello che sappiamo fare sono i lavori tramandati da padre a figlio. Mio padre, per esempio, essendo d’etnia lovara, mi ha insegnato come si domano i cavalli, ma siccome noi non ne avevamo, li dovevo andare a cercare, e vi posso dire che si trovavano sui pascoli liberi e belli, bastava solo prenderli. Avevo le tasche piene di zucchero e di carote, perché i cavalli vanno matti per queste cose, mi avvicinavo, gli davo da mangiare e loro venivano dietro di me. Purtroppo avevo il problema di nasconderli, ma si sa bene che ogni problema ha la sua soluzione, così ogni sabato, prima di andare a vendere i cavalli, io e mio padre (furbo) li dipingevamo con la fuliggine, per questo tendenzialmente preferivamo prendere i cavalli bianchi.

I nostri affari andavano molto bene, finchè una domenica abbiamo portato i due più bei cavalli mai visti in questa zona (infatti non provenivano da questa zona); all’improvviso ha cominciato a piovere, una disgrazia tira l’altra, perché nella fiera ci stava pure il proprietario dei due cavalli e dove ci sono le fiere ci sono pure i poliziotti. Comunque mio padre, in modo molto coraggioso, ha ammesso che tutto il lavoro con i cavalli l’avevo fatto solo io e pure mi ha dato una cinquina, dicendomi: “ecco perché la gente ci guarda così male, tutto per colpa di voi mocciosi che andate a rubare alle persone oneste.”

Visto e considerato che non ero bravo come cavallaio e che già tutti mi conoscevano per quello che ero, cioè un onesto, bravo e vivace bambino che aveva sbattuto la testa da piccolo, ho deciso di andarmene alla ricerca della fortuna in un paese straniero. Uno dei paesi di cui ho sentito parlare come di un paese molto ricco e bello, è l’Italia, mi hanno detto che è facile trovare casa e lavoro. Il primo giorno che sono arrivato a Roma, la città più grande per opportunità di lavoro, dovunque chiedevo tutti dicevano  “ma qui neanche agli italiani piace lavorare, immagina a uno zingaro”. Non capivo come sapevano che ero uno zingaro, se neanche io ero uno zingaro puro: mi sono accorto solo dopo, quando ho sentito una signora che criticava suo figlio dicendogli “sei sporco come uno zingaro”.

Giorno dopo giorno andavo in giro alla ricerca di ‘sto benedetto lavoro, guardando la gente ai semafori che chiedeva l’elemosina, poi mi venne un lampo di genio.
E finalmente me lo trovai, un lavoro: chiedere l’elemosina, che ci vuole, ti metti al semaforo e aspetti che si fermano le macchine, sotto il sole di 40° ti fai due-trecento metri con la mano tesa e basta dire “scusa hai qualche spiccio?” O magari sotto la pioggia, quando le persone neanche ti aprono il finestrino, e qualcuno ti manda pure a quel paese, lì capisci che hai trovato un lavoro serio. Tutto andava bene, facevo lo slalom come Alberto Tomba in mezzo a macchine e motorini, perché dovete sapere che fa male se la ruota di una BMW ti passa sopra il piede o ricevi una gomitata nelle costole da un motociclista. Sapendo che agli Italiani gli zingari non piacciono, mi sono fatto  un cartone con sopra scritto, “sono padre di 7 figli senza lavoro”: il primo autista che lo ha letto mi ha risposto “’sti cazzi, potevi pensarci prima!”.

Dopo una giornata così proficua di lavoro, alla sera mi appartavo dentro la mia roulotte al Casilino 700, e mi riposavo in compagnia di topi più grossi dei gatti (infatti i gatti non ci stavano), che entravano da tutti i buchi, poi alla fine quando ho dovuto blindare la roulotte, mi sembrava Fort Knox, dentro era tutta di metallo. Il bello del campo Casilino 700 era che non avevi nulla, nè acqua nè luce, solo il fango quando pioveva e la polvere durante l’estate, e ci vivevano 1.800 persone, divise in 6 etnie diverse (Bosniaci, Macedoni, Montenegrini, Cergaria e Kosovari, oltre ai Rumeni che sono venuti negli anni novanta) più i magrebini che stavano in disparte, erano quelli che vendevano tappeti durante il giorno.

Bambini

Una mattina mi sono svegliato di soprassalto per le urla, esco fuori dalla roulotte e vedo una scena meravigliosa. Due pantere dei carabinieri di zona, che ci conoscevano tutti, e  un brigadiere che parlava con il vecchio Sefko, che era considerato l’uomo di fiducia di tutto il campo (se uno vuole far sapere in giro una cosa, basta raccontarla a Sefko e raccomandargli di non dirlo a nessuno: stai sicuro che nel giro di un’ora tutti gli zingari, carabinieri, polizia, pompieri e pure gli autisti dell’Atac sapranno che cosa è successo). Sento il brigadiere che gli fa delle domande:
Brigadiere: “di chi è tutta questa roba?”, indicando un barile, uno di quelli di gasolio che era strapieno di rame squagliato.
Sefko: “bambini”, e indicava due ragazzini di 4 -5 anni massimo.
Brigadiere: “ma che, mi stai prendendo per il culo, come cazzo loro possono portare due quintali e mezzo di rame squagliato?”
Sefko: “ma che ne sanno bambini, signor brigadiere, quanto pesano due quintali e mezzo, sono solo bambini e ancora non vanno a scuola e non conoscono matematica.” Quando ho sentito la risposta di Sefko mi sono ammazzato di risate, ridevo cosi tanto che ho smesso di ridere dentro la caserma, perché mi hanno portato per accertamenti dei documenti, che io regolarmente non avevo.

Di fronte al campo ci stava un supermercato dove noi andavamo a fare la spesa, e siccome durante estate per l’intera settimana si andava in giro per vari paesini a chiedere l’elemosina, non si aveva il tempo di fare la spesa ogni giorno. Per ciò la grande spesa si faceva lunedì, perché il lunedì nessuno andava a chiedere l’elemosina; all’inizio non capivo perché, poi mi hanno spiegato che sabato e domenica ci sono i “ladri” che lavorano nel weekend, e quando è lunedì tutti fanno le denunce e i carabinieri o la polizia prendono tutti gli zingari che si trovano nella zona. La cosa bella è quando entrano venti zingari dentro un supermercato: la guardia giurata impazzisce, non sa chi deve seguire o chi deve guardare, praticamente la sua presenza è inutile. Come io ero in buoni rapporti con Marko, il ragazzo che gestiva il supermercato, gli dicevo sempre “manda via la guardia giurata e vedrai che non ti sparirà più roba dal supermercato”, “ma sei matto - mi diceva - cazzo adesso devo prendere pure un altro, tu sai quante confezioni di wurstel mi spariscono ogni settimana? Centinaia.”
Gli risposi: “scommettiamo che se tu mi dai retta non ti sparirà più niente? facciamo la prova, comunque non hai niente da perdere.” “Va bene”, non era tanto convinto ma ha accettato. Io conoscevo quello che era in grado di rubare da un supermercato pure la commessa che lavora, e sapevo che lui era l’incubo di Marko. Lo chiamo a disparte dicendogli se gli piacerebbe lavorare, e la prima cosa che mi ha detto è che lui non può fare lavori pesanti perché ha l’ernia del disco, indicandomi la spalla sinistra. Gli dissi “non ti preoccupare, il lavoro è leggero, non devi fare altro che impedire che gli zingari rubano dentro il supermercato. Mi guardava come se mi vedesse per la prima volta e mi rispose: “Toni, ma se io impedirò che altri rubano, come ruberò io?” Gli ho spiegato che lui dovrebbe fare il guardiano nel supermercato e impedire agli altri di rubare. L’unica risposta, che secondo me era pure sincera e sensata, fu ”Toni, io posso impedire a quelli che non sono della mia famiglia, ma non posso a quelli che sono della mia famiglia”. “Va beh” dico io, pensando, sono tre-quattro le persone della famiglia, il danno che possono fare è minimo, e gli chiesi “ma quanti siete voi in famiglia?” “180, senza contare i parenti lontani”. Morale della storia: hanno chiuso il Casilino 700. 


Il furgone
Io non mi sono mai considerato un ladro professionista, ma uno che si sapeva arrangiare nella vita, un po’ qua un po’ là e così la vita andava avanti. La mia decisione di smettere di fare il “Grande criminale” (cioè rubare wurstel nei supermercati) è stata presa una notte d’estate. Io e altri tre geni come me abbiamo sentito che alla stazione ferroviaria di Orte ci stava Rame, per rifare la rete elettrica. Per noi zingari il rame è come l’oro, lo puoi vendere a qualsiasi sfascio, lo puoi pure lavorare se sei bravo come artigiano, ma per me era sempre più facile venderlo. Secondo le informazioni di uno che è passato con il treno per Orte, a occhio e croce dovevano esserci al minimo due tonnellate di rame pulito, secondo la mia matematica a quei tempi erano circa sei milioni di lire. Tutti e quattro abbiamo deciso in modo democratico di andare a prendere ‘sto ben di dio, che in pratica ci veniva regalato dalle ferrovie. Ma si sa che due tonnellate di rame non puoi metterle su una spalla e portarle in giro, neanche con l’autobus o il treno, ci serviva un mezzo di trasporto. Uno di noi aveva un furgone, ma primo era piccolo, secondo era cosi macchiato che solo per andare dalla Casilina a Centocelle già lo fermavano due volte, perciò ci serviva un furgone serio, pulito e grande, un Ducati di quelli grandi dove puoi caricare subito tutta la roba. Abbiamo preso “in prestito” da un parcheggio una Fiat Uno e siamo andati alla ricerca di ‘sto benedetto furgone, e dopo vari tentativi lo abbiamo trovato a borgata Finocchio, alla periferia di Roma. Ma come stava appiccicato sotto la finestra della casa del proprietario, l’unico modo per prenderlo era spingerlo un po’ lontano da casa e così lo accendevamo. Detto fatto. Lo abbiamo spinto più di duecento metri lontano e il nostro genio della meccanica e autista, si siede dentro, mette tutti i fili per accenderlo, ma non c’è niente da fare, il furgone non partiva. Il secondo genio sale dicendo “ma tu non hai mai capito un cazzo di come si legano i fili, lascia fare a me”, si è messo a maneggiare con i fili, prova ad accenderlo, ma il furgone ottuso non dava segni di vita. Il primo genio dice “secondo me la batteria è scarica, proviamo ad accenderlo a spinta.” Per la nostra solita fortuna, il furgone era girato verso una piccola salita e per spingerlo abbiamo sudato, come si dice, sette camice, sia per il peso del furgone, sia per paura che passavano i carabinieri o la polizia. Dopo che lo abbiamo spinto per ulteriori trecento metri, il furgone non si accendeva ancora, uno dei geni ha proposto di spingerlo ancora e io ho detto “in tale caso spingiamolo direttamente fino a Orte”. Poi mi è venuto in mente che ogni tanto i proprietari levano dalla batteria il filo, magari perché difettoso e la scarica durante la notte. Apro il cofano del furgone e, con mio gran dolore, scoprii che dentro non che non ci stava la batteria, ma non ci stava l’intero motore. Che culo, con tutti i furgoni a Roma e nel Lazio noi andiamo a rubare un furgone senza motore. Come si erano fatte quasi le 6 di mattina, abbiamo deciso di tornare al campo con la Fiat che avevamo preso “in prestito”. Appena siamo partiti, abbiamo constatato che eravamo rimasti senza la benzina. Per tre chilometri siamo andati a piedi per prendere l’autobus; appena saliti, per la gioia dei nostri occhi, la prima cosa che abbiamo visto era un gruppo di controllori dei biglietti, che noi regolarmente non avevamo, e un poliziotto che andava al lavoro. Per farci la multa il controllore ci ha chiesto i documenti, che noi regolarmente non avevamo, e ci ha fatto scendere alla prima fermata. Che nottata!   

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